302013Giu
Discussione di mozioni sui consigli di amministrazione delle società a partecipazione pubblica

Pubblichiamo il testo dell’intervento del Sen. Vincenzo D’Anna (ed il link al video) nel corso della seduta pubblica in Aula del giorno 19.06.2013, concernente la discussione di mozione sui consigli di amministrazione delle società a  partecipazione pubblica. 

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione. È iscritto a parlare il senatore D’Anna. Ne ha facoltà.

D’ANNA (PdL). Signor Presidente, vorrei innanzitutto chiarire un aspetto propedeutico alle varie mozioni qui illustrate. Ci troviamo di fronte ad un tipico pannicello caldo; ci troviamo di fronte alla cura del sintomo e non all’eradicazione della causa del male. I tempi che corrono sono tali da indurre la politica a dare segnali di trasparenza, di competenza e di moralizzazione. Ben venga tutto questo, ma la vera causa dei mali generati dalle partecipazioni dello Stato imprenditore – e spero che il ministro Fassina presti un po’ di attenzione – è da ricercare nell’articolo 41 della Costituzione: «L’iniziativa economica privata è libera». I Costituenti però non vollero fermarsi a questo primo capoverso che, di per se stesso, ritengo esaustivo, ma vollero, in quel clima di compromesso tra il più grande partito della sinistra e le forze laiche e democristiane, aggiungere: «Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». È da questo secondo capoverso che nasce la triste storia dello Stato imprenditore. Chi ha avuto modo di leggere «Lo Stato onnipotente» di Ludwig von Mises sa bene quanto è costato lo Stato imprenditore. Ancora oggi, nel momento in cui il debito pubblico, che è gran parte figlio di quelle dissennate partecipazioni dello Stato alla libera iniziativa economica, delle sue interferenze, dei monopoli che lo Stato pretende ogni qual volta cerca di fare ‘imprenditore, ancorché privo di qualsiasi riferimento alla legge della libera economia e senza alcun criterio di controllo terzo della produttività, del merito, dell’efficienza e dell’economicità, noi siamo qui a legiferare e a normare con delle mozioni le modalità di composizione dei consigli di amministrazione. Siamo qui a somministrare una moralistica aspirina ad un malato grave, che è in gran parte causa di 2.000 miliardi di euro di debito.

Ebbene, Luigi Sturzo, nel lontano 1954, ammoniva in questa Aula sulle tre «male bestie» che avrebbero affamato e ridotto la democrazia parlamentare italiana: lo statalismo, la partitocrazia e lo spreco del pubblico denaro. Questi tre elementi sono tutti contenuti, se non incarnati essi stessi, all’interno della gestione dei monopoli o delle partecipazioni dello Stato alla libera iniziativa.
Cosa dire poi della golden share, della pretesa dello Stato di indicare, coordinare, programmare, come nei più biechi regimi totalitari ove la pianificazione era lo strumento politico portante, che distingueva questo tipo di società e di Stato politico? Cosa dire di uno Stato che vuole avere la maggioranza anche quando è in minoranza all’interno dei consigli di amministrazione? Il vice ministro Fassina è qui a trastullarsi invece di ascoltarmi mentre tento di dirgli qualcosa che dovrebbe sapere o dovrebbe imparare, se vuole approdare alla vera sponda del liberalismo.

FASSINA, vice ministro dell’economia e delle finanze. Ascolto, ascolto!

D’ANNA (PdL). Dovrebbe innanzitutto fare ammenda di una visione della società in cui invece di scegliere Filadelfia si è scelto Parigi con la nostra Costituzione: non abbiamo scelto un cittadino che si serve dello Stato, ma uno Stato opprimente e pervasivo che pretende di fare l’imprenditore, il medico, il pedagogo e ogni altra attività nel campo dell’economia attraverso le partecipazioni statali.
Qualunque sia la mozione che andremo ad approvare sappiate, colleghi senatori, che si tratta di un’operazione di mera facciata che corregge i sintomi, ma non cura le cause. È lo statalismo, è la funzione dello Stato nell’impresa il vero nemico della libertà economica. Quando questa dicotomia tra libertà e liberismo fu fonte di dibattito tra Croce ed Einaudi – il barone Compagna forse lo direbbe meglio di me – quest’ultimo disse a Croce che la prima delle libertà era quella di intraprendere, la libertà di fare; questa non può essere mutuata né condizionata né avvilita né orientata né coordinata da uno Stato che come libera espressione di libere volontà non è nato per fare l’imprenditore se non per fare clientelismo, sperpero del pubblico denaro, occupazione di posti di potere e di sottogoverno da parte delle forze politiche, dilapidando risorse che in mano alla vera iniziativa privata porterebbero ricchezza a questa Nazione.
Non mi attarderei, come ha fatto il collega del Movimento 5 Stelle, nell’andare ad evidenziare le ruberie e le distorsioni del sistema. La cosiddetta Prima Repubblica è andata a casa per una tangente di 300 miliardi di lire, ma nessuno in questa Nazione ha ancora denunciato e pagato i 2.000 miliardi di lire che lo Stato sperperò vendendo e comprando da Gardini le azioni Enimont, solo perché quest’ultimo voleva rendere la chimica italiana efficiente chiudendo tutte le industrie decotte che servivano da ammortizzatori sociali.

PRESIDENTE. Senatore D’Anna, vorrei ricordarle che il barone Compagna per noi resta il senatore Compagna, perché la XIV disposizione transitoria e finale della Costituzione non riconosce più alcun titolo nobiliare. (Applausi dai Gruppi PDe LN-Aut).

Link al video (dal min 41:20)

http://webtv.senato.it/4193?seduta_assemblea=60