
Per quanto la politica sia diventata di stampo personalistico e i partiti si siano trasformati in surrogati di quelli di un tempo, non tutto sembra essere stato cancellato. Per intenderci: è vero che la prassi gestionale delle forze politiche si è ridotta all’idolatria del capo con la classe dirigente che, di conseguenza, viene scelta per cooptazione dall’alto tra amici, parenti e fedelissimi del leader. Tuttavia rimane ancora un barlume residuale delle specifiche identità di valori e di programmi distintivi del soggetto partitico, ancorché rispolverate, all’occorrenza e in base alle circostanze. Tranne il Pd, che, prepara il congresso con lo strumento delle cosiddette “primarie”, un espediente demagogico che porta comuni cittadini a determinare designazioni interne al partito col voto di gente che non vi appartiene e Fratelli d’Italia con le sue adunate estemporanee e plaudenti, nessun altro movimento tra quelli attualmente in circolazione si pone il problema di ripristinare forme di democrazia decisionale riservate al proprio storico universo di riferimento. Ne consegue che tutto viene lasciato alle etichette di convenienza che ciascuno declina scegliendo ad uso proprio la collocazione nell’arco dei valori denominati e ricompresi in Destra, Centro e Sinistra. A causa di una legge elettorale farlocca e complicata, la rappresentanza parlamentare scaturita dalle urne oggi si forma solo dopo aver carpito il voto agli elettori e derogato alle affermazioni categoriche della campagna elettorale. Poiché la carica non santifica chi la ricopre, buona parte dei deputati e dei senatori si forma in occasionali concistori nei quali la scelta viene presa sull’affidabilità delle persone e non sulla loro effettiva capacità di svolgere il mandato ricevuto. Venuto meno il compito di trait d’union tra popolo ed istituzioni che la costituzione repubblicana assegna alle forze politiche, ecco che assurge allo scranno una variopinta categoria di ignoranti in materia politica e legislativa. Risultato: l’asse si sposta sui decreti partoriti dal governo in carica, che vengono poi sottoposti alla “sola” ratifica delle Camere spesso con il ricorso al voto di fiducia che, di per se stesso, cancella gli emendamenti e riduce l’apporto del Parlamento alla mera ratifica delle proposte dell’esecutivo.
Se questo è l’andazzo può ben comprendersi perché le riforme dei partiti e della carta costituzionale siano ritenute lontane da venire un po’ da tutti i protagonisti della scena nazionale. Un’abitudine a lasciare le cose come stanno e che il gioco delle parti, camuffato da confronto, possa riservare, in futuro, diversa sorte a chi oggi si ritrova relegato tra i banchi della minoranza. Uno degli argomenti del quale poco si parla e che il cittadino comune pressoché ignora, è quello dell’autonomia regionale, ovvero quel complesso di prerogative e funzioni che lo Stato assegna agli enti locali in taluni ambiti amministrativi. Le regioni, entrate in servizio nel lontano 1970, non erano ben viste nel tempo in cui la politica aveva una propria caratura ed una significativa autorevolezza nelle gestione della cosa pubblica. Esse, con il trascorrere degli anni, sono diventate, come temevano molti padri costituenti (contrari a quell’istituto), dei veri e propri centri moltiplicatori di spesa, infarciti, al Sud, di decine di migliaia di dipendenti quasi tutti “raccomandati”. In particolare la Sanità è diventata una sorta di vestito di Arlecchino con il ginepraio di norme diverse e di organizzazioni pletoriche ad essa collegate. Un sistema che si regge e sfrutta, da Roma in su, la mobilità passiva dei malati accolti nei grandi centri ospedalieri del Settentrione, a spese però delle regioni di provenienza. La stessa ripartizione del Fondo Sanitario Nazionale, ben 125 miliardi di euro, fa parti eguali tra diseguali non tenendo in alcun conto la diversa ricchezza pro capite prodotta dalle popolazioni. Ora il ministro Calderoli sta spingendo sull’accelerazione di un autonomia spinta per taluni regioni di per se stesse più ricche ed organizzate. Si tratta di un surrettizio modo affinché queste lascino in loco buona parte delle risorse e delle tasse esatte ad una popolazione con reddito più elevato. Pensiamo alle funzioni legate a settori come Sanità, Formazione professionale, Scuola, Urbanistica, Agricoltura e Lavori Pubblci che verrebbero delegate in loco. Un modifica sostanziale dell’unità della nazione, surrettiziamente trasformata in una specie di federazione di regioni. Un atto di furbizia e di egoismo politico amministrativo che aumenterà il divario tra il nord ed il Mezzogiorno.
Ebbene, a tale impostazione – già approvata, in linea di principio, dai seguaci della Sinistra – sembra volersi opporre Fratelli d’Italia, il partito del presidente del Consiglio Meloni, notoriamente a forte ispirazione e trazione unitaria e nazionale. Lo fa, sia ben chiaro, per non snaturare se stesso. Ed allora, che dire? brava Giorgia!!